La Basilica di San Martino è il monumento che più rappresenta l'esplosione dell'arte rococò a Martina Franca nel 1700, un secolo di grande vivacità culturale per la città.
Dell'esistenza di una chiesa Matrice a Martina Franca si parla con certezza in una pergamena capitolare del 20 novembre del 1348; più di due secoli dopo, nel 1587, la Santa Sede attribuì alla chiesa il titolo canonico di Collegiata con la presenza di un Capitolo (Collegio di chierici). Dagli atti di una Santa visita compiuta nel 1594 da monsignor Lelio Brancaccio, arcivescovo di Taranto, si sa che la Collegiata era in stile romanico e a tre navate.
Proprio sulle fondamenta di quell'antica chiesa medievale il 5 maggio del 1747 iniziarono i lavori di costruzione della nuova Collegiata di San Martino, con una cerimonia di "posa della prima pietra" presieduta da Francesco II Caracciolo, duca di Martina Franca, e benedetta da monsignor Giovanni Rosa, arcivescovo di Taranto. Nel prosieguo dei lavori l'antica chiesa medievale fu demolita per tappe.
La nuova chiesa fu progettata dall'ingegnere e agrimensore berbamasco Giovanni Mariani, trasferitosi a Martina dove sposò una martinese, e vi prestarono la loro opera nella prima fase dei lavori Giuseppe Morgese e i figli Francesco e Gaetano provenienti da Ostuni, tutti scultori progettisti.
Da qualche decennio prima del 1747 alcune chiese conventuali della città erano in ricostruzione restituendo una facies che seguiva gli stilemi artistici in voga, dal barocco al rococò. Era necessario, pertanto, adeguare la chiesa Matrice che non poteva essere superata in grandezza e bellezza. Ma il motivo principale per cui il clero, presieduto dall'arciprete Isidoro Chirulli, decise di ricostruire la chiesa è legato al terremoto del 20 febbraio del 1743 che lesionò gran parte del tempio, un sisma che riguardò tutta la Terra d'Otranto.
Un cantiere durato quasi trent'anni che vide il 22 ottobre del 1775 la cerimonia di consacrazione della nuova Collegiata al patrono e titolare San Martino, officiata da Monsignor Francesco Saverio Stabile, vescovo di Venafrio, martinese e canonico della stessa chiesa. Nel 1776 furono avviati i lavori di ricostruzione dell'imponente cappella del Santissimo Sacramento, una chiesa nella chiesa, che si conclusero nel 1785. Nel 1842 la chiesa fu riconosciuta come Insigne Collegiata e, giungendo ai giorni nostri, il 22 aprile del 1998 fu elevata a Basilica Minore da Giovanni Paolo II.
La nuova chiesa di San Martino segnò l'affermazione del gusto rocaille nella città.
L'edificio ha una facciata lievemente ondulata tra le più imponenti del sud della Puglia, alta 37 metri e ripartita in due ordini divisi da una cornice aggettante.
Sei lesene movimentano l'ordine inferiore articolato da 4 nicchie, due per lato, contenenti da sinistra a destra le statue di san Giovanni Battista, di san Pietro, di San Paolo e di San Giuseppe. Queste quattro staute, di autore ignoto, potrebbero provenire dall'antica chiesa di San Martino, statue visivamente lontane dallo stile rococò che abbellisce tutto il monumento.
Al centro c'è il portale sovrastato dall'altorilievo raffigurante San Martino e il povero, opera da attribuire allo scultore napoletano Pasquale Montanini che lavorò sul cantiere con Giuseppe Morgese. Si tratta di una delle iconografie del Santo di Tours più note, che racconta l'episodio del taglio del mantello da parte di Martino per donarne metà al povero, un episodio che risalta la carità cristiana come virtù da seguire.
Due lesene, invece, adornano l'ordine superiore meno ampio del primo ed esaltato ai lati da due fiaccoloni litici poggianti su volute. Due nicchie contenenti le sante Comasia e Martina incorniciano il finestrone centrale abbellito da una piccola loggia. Un frontone chiude la facciata decorato da una cornice mistilinea e da fiaccole litiche che ne accentuano la proiezione nel cielo. Nel timpano al centro lo stemma con il mitra episcopale, quasi sicuramente un riferimento al san Martino vescovo.
All'interno mononavato subito a sinistra si trova il battistero ottagonale in marmi policromi, opera del marmoraro napoletano Crescenzo Trinchese, realizzato nel 1773 con un gruppo scultoreo in marmo bianco raffigurante il Battesimo di Gesù posto sulla cima.
Segue la prima cappella sul lato sinistro con un altare rococò in pietra policromata, fatto erigere nel 1775 da Maria Idria Miani. L'ancona raffigura la Apparizione della Vergine a san Girolamo Emiliani, olio su tela di autore ignoto della seconda metà del XVIII secolo. San Girolamo è il fondatore dell'Ordine dei padri Somaschi.
Di manifattura napoletana sono anche le due acquasantiere in marmo, una a sinistra subito dopo l'altare di San Girolamo Emiliani e l'altra esattamente in corrispondenza difronte sulla parete destra della navata. Sulla prima in bassorilievo è raffigurato san Martino vescovo che invoca la pioggia, sull'altra Mosè fa scaturire l'acqua da una roccia del Monte Oreb, durante l'esodo. Da notare in entrambe la rappresentazione che i personaggi sono collocati in un'ambientazione simile, con la roccia e gli ulivi che rimandano a una terra siccitosa come la Murgia martinese.
Incanta la Cappella della Natività dove è collocato il gruppo scultoreo rappresentante La Natività opera di Stefano da Putignano, importante scultore del Rinascimento pugliese, che produsse opere in pietra dipinta, tutte caratterizzate da un vivo realismo. Dello scultore sono di certo Giuseppe, Maria e i due Angeli oranti, mentre il Bambino Gesù , il bue e l'asinello sono stati realizzati dopo. Al Presepe fa da sfonfo la bellissima tempera su muro che raffigura la Adorazione dei Pastori, realizzata nel 1777 da Pietro Cataldo Mauro, artista molto richiesto da una committenza pubblica e privata. L'ambientazione bucolica della scena dei pastori in adorazione di Gesù s'inserisce in quel filone culturale arcadico, diffuso nel settecento anche a Martina Franca, riscontrabile in molti palazzi gentilizi, in primis nel Palazzo Ducale.
Il primo altare del transetto sinistro è dedicato all'Arcangelo Raffaele. In stile rococò e in pietra, l'altare fu eretto fra il 1764 e il 1775. L'Ancona è un olio su tela di autore ignoto raffigurante L'Arcangelo Raffaele e Tobiolo, realizzato nel XVIII secolo. La scena è tratta da "IL libro di Tobia", in cui Tobiolo compie un viaggio al posto del padre Tobia impossibilitato dalla cecità. L'Arcangelo Raffaele sarà al fianco del giovane e si paleserà come angelo solo alla fine del viaggio. Il racconto insegna che ogni buon cristiano ha al suo fianco nel cammino della vita il proprio Angelo custode.
L'altare centrale del transetto sinistro è dedicato al Cristo alla Colonna. L'opera è in stile neoclassico in preziosi marmi policromi e fu commissionata nel 1775 dal vescovo Francesco Saverio Stabile a un marmoraro ignoto. La statua del Cristo, in legno d'oliva dipinto, si trovava nella vecchia Collegiata e fu realizzata dall'artista gallipolino Vespasiano Genuino nel XVII secolo. La fattura rivela una perfetta conoscenza del corpo umano dell'artista, che è riuscito a trasmettere tutta la sofferenza fisica di Cristo in maniera emotivamente coinvolgente per lo spettatore.
Sull'altare, il paliotto è decorato con un bassorilievo in marmo che raffigura il velo della Veronica con su impresso il Volto di Cristo, opera attribuita a Giuseppe Sanmartino il celebre scultore del Cristo velato della Cappella Sansevero a Napoli.
L'ultimo altare del Transetto sinistro è dedicato a Santa Maria di Costantinopoli, in pietra e in stile rococò, eretto tra il 1774 e il 1775. L'ancona raffigura La Madonna di Costantinopoli tra san Michele Arcangelo e San Gaetano da Thiène, olio su tela di autore ignoto, dipinto nella seconda metà del XVIII secolo. Il culto della Madonna di Costantinopoli si diffuse a Napoli nel 1529 dopo il ritrovamento di un'icona così denominata, icona che per tradizione fece cessare la peste. Da Napoli il culto si diffuse poi in tutto il Regno. L'immagine, nella tela, di una città in fiamme sullo sfondo e la scritta in un nastro tenuto dai due angeli, sono un chiaro riferimento a un'epidemia di peste.
Nella nicchia a sinistra del presbiterio si ammira un bellissimo gruppo scultoreo in legno colorato del XVIII secolo raffigurante la Madonna Pastorella. La Madonna, con un volto dai lineamenti delicati, reca qualche attributo dell'Immacolata, come la mezza luna sotto i piedi, la corona di stelle, la stella caudata, ma indossa un abito e un mantello finemente rifiniti con ricami in oro e originariamente, il petaso, il tradizionale cappello dei pastori, ora sostituito dopo il restauro. In alto quattro angeli in volo e sotto un gregge e un agnellino che la Madonna protegge da un lupo che ella stessa trafigge col vincastro, il tipico bastone dei pastori, una perfetta ambinetazione arcadica. Il culto della Pastorella di origine spagnola fu diffuso a Martina Franca dai frati Cappuccini o Alcantarini nella prima metà del Settecento. La Divina Pastora fu la Madonna del popolo, non una immagine idealizzata di Madonna che appare ai Santi estasiati, irraggiungibile, intangibile, ma una del popolo a cui era facile rivolgersi direttamente per chiedere protezione, intercessione. L'immagine della Divina Pastora è , infatti, molto diffusa nei quartieri più popolari della città vecchia in tante graziose edicole votive; in lei si confidava anche affinchè protegesse dalle epidemie che decimavano le piante.
Sull'imponente portale di accesso alla Cappella del Santissimo Sacramento si può ammirare un dipinto a olio opera del 1769 di Michelangelo Capotorto, pittore nato a Rutigliano. La tela raffigura la Pentecoste o Discesa dello Spirito Santo, ossia l'attimo in cui una colomba effonde lo Spirito Santo sui dodici Apostoli.
A questo punto si accede da un ampio portale nella Cappella del Santissimo Sacramento, dove una diffusa policromia risalta subito, dalle pareti dipinte all'altare marmoreo. Con lo sguardo in alto si ammira la cupola nei cui pennacchi sono ritratti I quattro Evangelisti; molto raffinato l'altare in marmi policromi del 1802 realizzato da Raimondello Belli, un marmoraro napoletano che realizzò anche il riquadro marmoreo sull'altare. In quel riquadro è contenuta una monumentale pala raffigurante Il Cenacolo, un dipinto a olio realizzato da Domenico Carella, pittore nato a Francavilla Fontana ma che nella seconda metà del XVIII secolo si trasferì a Martina Franca. Il dipinto è tra le ultime opere del Carella, prima della sua morte avvenuta a Martina nel 1813, ed è ritenuto il suo capolavoro per la cura dei particolari nella ricostruzione di un ambiente che rimanda ad atmosfere domestiche, con alcuni utensìli che ancora oggi fanno parte della cultura popolare. Come è tipico nelle rare raffigurazioni di "Ultima Cena" con desco circolare, nella scena si riconosce la figura di Giuda che siede isolato, al di qua del tavolo.
Da ammirare anche le vetrate istoriate delle finestre, ai lati dell'altare, opere di Marcello Avenali e realizzate nel 1956, sempre sul tema eucarsitico: a destra Cristo pane di vita e a sinistra Cristo consacratore.
Usciti dalla Cappella del Sacramento, o Cappellone, si può ammirare l'altare maggiore, un arco di trionfo che celebra il Santo patrono Martino di Tours. Progettato da Gennaro Sanmartino, regio architetto e fratello del Giuseppe già citato, l'altare fu realizzato nella bottega del marmoraro Giuseppe Variale, in marmi policromi con decori in rame dorato per il dossale. Sontuosa, l'opera è composta da due colonne per lato e nell'ancona è esposta la più antica statua lapidea policromata che si conservi di San Martino vescovo che proviene dall'antica Collegiata romanica, anch'essa opera di Stefano da Putignano, quindi realizzata nei primi decenni del XVI secolo.
A grandezza naturale sui corni sono collocate due bellissime statue allegoriche in marmo bianco di Carrara, esse raffigurano, a sinistra, La Carità e, a destra, L'Abbondanza, ormai definitivamente attribuite allo scultore Giuseppe Sanmartino e, forse, anche i Putti in marmo ai lati del fastigio ad arco spezzato dello stesso altare.
Uno sguardo al Coro vale la pena rivolgerlo, nell'ampia abside. Esso è in noce intarsiato costruito da un ignoto ebanista nel 1775, costituito da settantuno sedili disposti seguendo la gerarchia capitolare, con il seggio centrale riservato all'arciprete. Al centro dell'abside c'è anche il leggio, sempre in legno, su cui il cantore posava il libro dei canti liturgici o corali.
A destra dell'altare maggiore, difronte al Cappellone del Sacramento si apre una grande nicchia contenente il Tesoro della Basilica. Qui sono conservati reliquie, calici, croci, ostensori, cartaglorie, pissidi ed altri lavori di oreficeria napoletana del XVIII secolo. Soprattutto sono conservate le grandi statue argentee dei Santi patroni, Martino e Comasia. La statua di san Martino vescovo fu realizzata nel 1700 dall'argentiere Andrea De Blasio, tra i più importanti a Napoli, finanziata da devoti martinesi in riconoscenza al Santo per i tanti miracoli operati, in primis il salvataggio dalla peste di fine secolo XVII. Il Santo con la destra benedice e nella mano sinistra mantiene il pastorale, un grappolo d'uva e il grano. San Martino, infatti, è anche il protettore delle messi e del buon raccolto in loco. Ai suoi piedi si nota un bue con le corna, chiaro riferimento alla razza di bovini autoctona e al suo protettorato anche sugli allevamenti. In riferimento alle vacche autoctone cornute nasce la tradizione a Martina Franca che Martino sia anche il protettore dei cornuti.
Anche la statua di santa Comasia è opera di Andrea De Blasio, realizzata a Napoli nel 1714. La Santa regge nella mano destra un libro e la palma del martirio nella sinistra. Entrambi i simulacri sono realizzati in argento con rifiniture dorate e racchiudono nel petto delle reliquie. Essi sono portati in processione durante la festa solenne di luglio dedicata a San Martino (san Martino dell'aia).
Della vita di Santa Comasia si sa niente ma è certo che le sue reliquie, sepolte nelle catacombe di Sant'Agnese a Roma, furono concesse da Papa Innocenzo X alla marchesa Felicia Caracciolo che le donò a suo nipote Francesco I Caracciolo, duca di Martina Franca. Così da Roma giunsero il 10 dicembre del 1645 le reliquie della Santa martire in giornate di fitta pioggia. Infatti si rese necessario deporre il copo santo momentaneamente nella chiesa extra moenia di San Nicola del Pendino. Si attese il bel tempo, quindi il Capitolo organizzò lo spostamento della santa, ma appena entrati nella città superata la Porta di San Nicola il corteo fu costretto a ripararsi nella Chiesa di San Vito perchè riprese a piovere. In una terra siccitosa, la straordinaria abbondanza di pioggia di quei giorni convinse i martinesi che Comasia era una benedizione venuta a proteggere la città. Si attese nuovamente la fine della pioggia e la processione ripartì per la Collegiata, dove le reliquie deposte in una cassa di legno sostarono in sacrestia per dodici anni circa. Finalmente nel 1658 il corpo di Santa Comasia fu traslato dalla sagrestia sotto la mensa dell'altare seicentesco a lei dedicato, poi demolito per la costruzione del nuovo altare. Dopo vari spostamenti oggi le reliquie sono deposte in un nuovo reliquiario nel vano del Tesoro della collegiata. Il culto della Santa si radicò presto tra i martinesi al punto che già alla fine del XVII secolo fu eletta dal Capitolo della Collegiata protettrice della città, affiancando san Martino. Dal 1755 alla festa estiva di San Martino, San Martino dell'Aia, che cade sempre non prima del 4 luglio, fu associata anche la festa di Santa Comasia. Nel tempo sui due santi sono nate tante storie popolari, alcune divertenti qualcuna irriverente.
A questo punto nel transetto sinistro si giunge proprio dinanzi all'altare in pietra in stile rococò dedicato a Santa Comasia, fatto erigere nel 1764, dove è esposta nell'ancona la bella tatua lignea dorata del XVII secolo della Santa, di autore ignoto. Come sempre la Santa reca nella mano destra un libro e nella sinistra la palma del martirio, mentre nel petto ha un piccolo reliquiario.
L'altare centrale del transetto destro è dedicato a Maria Ausiliatrice, eretto nel 1879 in marmo e in stile neoclassico, un tempo dedicato a Nostra Signora de La Salette la cui statua fu sostituita dall'attuale.
L'ultimo altare del transetto destro è sempre in pietra, eretto tra il 1770 e il 1775 in stile rococò e dedicato a Santa Martina, la cui statua, in legno dipinta, è nell'ancona e come tutti i martiri regge nella mano sinistra la palma. Della santa sono presenti a Martina alcune reliquie e il culto si è diffuso nel Settecento diventando per i martinesi la protrettrice dai fulmini e dai terremoti.
Prima di lasciare il transetto se si volge lo sguardo in alto si vedono dei dipinti murali ripristinati con i restauri del 2000 della chiesa. In alto, nel transetto sinistro, sono raffigurate La Sepoltura di San Martino e la sua miracolosa apparizione durante l'assedio della città del XVI secolo; a destra è raffigurato San Martino e il povero.
Proseguendo verso l'uscita altre due altari si incontrano. Prima quello dedicato alla Addolorata in stile neoclassico e in marmi policromi. La statua lignea fu realizzata nel 1822.
Infine, l'altare del Crocifisso in pietra e legno eretto nel 1765; il Crocifisso ligneo esposto, forse opera di Riccardo Brudaglio di Andria, ha una forte carica espressiva.
Prima di concludere la visita si nota all'uscita la lapide con cui si ricorda l'elevazione della Chiesa a Basilica nel 1998.
Per approfondire l'argomento:
G. LIUZZI, L'insigne sul colle - La Basilica di San Martino in Martina Franca, Taranto 2001.
C.C. ANCONA, La statuaria della Collegiata di San Martino, in Umanesimo della Pietra - Città & Cittadini, Martina Franca, dicembre 2015, n.21, pp.17-62.
G. LIUZZI, La devozione martinese nel Seicento: Santa Comasia, in Umanesimo della Pietra, Giubileo al Caffè del Ringo, Martina Franca, giugno 2000, pp.133-168.